“La Terra di Filomena” secondo M. Concetta Preta
RECENSIONE DEL LIBRO DEL PROF. PASQUALE DE LUCA “LA TERRA DI FILOMENA”
La protagonista:
Chi è Filomena? Nome caratteristico della Magna Grecia per un personaggio-tipo che nella terra trova il riscatto e la salvezza di un’esistenza segnata dalla guerra. La terra come ragione di vita, come punto fermo dell’esistenza. La “Terra di sopra” come rinascita, in fondo “dalla terra siamo nati ed alla terra torneremo”, la terra come dea, una sorta di Magna mater mediterranea, Filomena come Rossella O’Hara che torna a Tara e la trova deserta, bruciata e martoriata e la rivitalizza con la sua fatica perenne nella quale esiste solo il presente, mai il futuro.
“In fondo domani è un altro giorno…”
Filomena come tante donne rimaste sole in un Sud bombardato e dimenticato, che trova la forza di riscattarsi grazie al lavoro, visto come unica ragione di vita, ma anche come condanna e lotta per il sostentamento.
Filomena come custode della memoria di una famiglia spezzata, che rimembra sempre il “tata” e non ha paura degli spiriti che popolano la Terra di sopra bombardata nel ‘43 e nella quale pianta una croce di legno che esorcizza le ombre e ridà pace al sepolcro del padre.
Filomena come icona di un coraggio quasi maschio, che reagisce ai soprusi contro l’usura di Don Rubino, l’avido arciprete che affama i poveri col suo “quaderno”; oppure che compie, come invasata da furore mistico, il taglio della pergola del tata che trasuda sangue e per far torto allo zio Gioacchino che se ne godeva i benefici; oppure che scaltramente sa organizzare la vendetta contro il ladro dell’acqua Peppi La Vina prima preparando le trappole, poi spaventandolo con un’anguilla. Filomena che reagisce all’abigeato, ritrovando la vacca Brunina nella stalla di Antonio Ruina o che si rivolge ai carabinieri per denunciare la scomparsa del porcellino Gru-Gru (voce onomatopeica!) che ama come un bimbo da allevare, ma che poi sacrificherà per l’inverno.
Filomena che lotta contro la fame nera, anche se si tratta di scagliarsi contro i poveri come lei che le rubano la carne di maiale o l’acqua o la vacca.
Filomena che soffre per i lutti, ma trova la forza di immaginare una vita nuova dalle macerie della guerra grazie all’amore per Ciccillo, prima sussurrato e appena
accennato in frasi smozzicate e dialoghi interrotti, poi acclarato in una passione profonda che appaga e sublima l’essere nel chiarore lunare.
Filomena che cura le ferite della guerra, quelle al corpo, alle gambe piene di pus e quelle all’anima con l’infaticabile lotta per l’esistenza e per un domani che non si immagina come sarà, ma che sa che dovrà esserci.
Filomena che, come tutti i poveri, lotta contro l’assurdità della Legge, che non è uguale per tutti e che riesce assurda e abnorme, estranea al proprio essere: ne è spia la grottesca vicenda del maialino.
Alla vicenda di Filomena si intersecano altre storie, grandi e piccole.
C’è la Grande Storia, l’epoca della follia fascista che viene accennata e la guerra che travolge intere masse. C’è il dramma dei reduci nella cui mente la guerra rimarrà sempre: ecco ziu Angiulu che torna senza una gamba e prega sempre la Madonna.
C’è Don Carmine Ortese, il prete-soldato.
C’è poi la vicenda della donna con lo scialle rosso e la sciarpa bianca, una misteriosa dama che incita la plebe alla rivolta per il pane, che osserva i poveri, li soccorre, è una benefattrice filantropa di alto lignaggio: è la duchessa, figura che sta tra il romanticismo e la realtà; è lei che sostiene la Repubblica contro la monarchia più retriva e conservatrice. La sua lotta indefessa, sostenuta da un’autentica fede laica verso la patria ed il progresso, culminerà nell’elezione a sindaco. Notevole l’affresco sociale quasi “bertolucciano” (mi ricorda il Terzo Stato di Pellizza da Volpedo!) del film Novecento, in cui si consuma la lotta all’alba del Referendum tra i ricchi monarchici, i nobili tropeani, i “gnuri” ed il popolo che vota la Democrazia Cristiana e che trova nella duchessa il suo idolo. Di questo personaggio, che è il mio preferito nel libro, voglio ricordare le allusioni cromatiche della sciarpa (bianca) e dello scialle (rosso), il lungo nome (Lidia Maria Stefania del Sannio duchessa di Montecelato d’Irpinia), il suo mimetizzarsi tra il popolo andando nei vicoletti e nei bassifondi, il suo essere una “diversa” in un mondo di privilegiati e l’aver scelto la strada più difficile, quella della lotta per il cambiamento. Una “pasionaria “ della politica, un eccezionale ritratto femminile questa duchessa che sposa la causa dei poveri e che diverrà la madrina della figlioletta di Filomena e Ciccillo, Maria Lucia.
C’è poi un quadretto che mi ha colpito in questo romanzo che si anima di uno stile “bozzettistico” e procede per piccoli momenti, fatti appunto di “piccole cose” in una poetica di realismo descrittivo minuzioso ed intimista: è la scena in cui
Filomena, che non è analfabeta, (perché durante l’epoca del fascismo ha frequentato le scuole elementari e nel 1936 aveva vinto il premio dell’Impero per l’Italiano!) scrive una lettera d’amore per Micuccia, ma sceglie di redigerla in dialetto perché l’amato, Cicciu, capisca. I due poi compiranno la fatidica “fujitina”. Per far ciò Filomena riceverà in cambio una forma di pane ed il rito della corrispondenza continuerà ogni domenica tra una lettera da scrivere ed una da leggere: perché così avveniva tempo fa nella nostra terra, e non solo, che chi era alfabetizzato aiutava chi non lo era, si metteva a disposizione come un medico con l’ammalato. E questo “quadretto” serve a ricordarci un altro “come eravamo”.
Ma quanti nel romanzo di De Luca i momenti rievocativi della storia quotidiana di una Calabria che quasi non c’è più e ritorna nei racconti dei nonni, degli anziani, nelle memorie orali che rinnovellano la storia!
Passiamo ora ad alcuni squarci lirici del romanzo, che mi hanno molto colpita.
Il primo, naturalmente, è quello della scena d’amore consumata al chiarore lunare. L’evocazione della Luna come misteriosa protettrice degli amanti mi ha rievocato un modulo saffico ripreso poi da tanti poeti. L’amore tra Filomena e Ciccillo è sempre consumato nella notte, alla luce dell’astro d’argento. Dall’ultima notte trascorsa insieme nascerà Domenico Salvatore, con la cui figura si chiude l’opera.
Altri momenti lirici, oltre che nelle descrizioni paesaggistiche, li ho ravvisati negli incipit dei capitoli. Devo dire che ho gradito molto la capitolazione e la sua titolazione, che è sempre un aiuto per la lettura, un’agevolazione ed un chiarimento oltre che dichiarazione d’intenti da parte dello scrittore. Nelle aperture di capitoli ho ravvisato pause narrative che tingono di poeticità la narrazione, squarci storici non certo aridi, riflessioni dell’autore con introspezioni oserei dire “filosofiche”, pensieri che si fan parole…
Un altro elemento che intride di lirismo e mistero è, oltre la presenza della Luna, quello dell’Acqua. Scritta in maiuscolo perché vista come una deità, un elemento purificatorio e catartico. Prendiamo il rito del lavacro: Filomena lavandosi si asperge del pus ma anche del dolore delle ferite, lava via il ricordo del male, poi “l’acqua parla, ha una voce” ed è mirabile la descriptio della fontana di S. Onofrio quando costruir fontane non era solo un’opera di pubblico evergetismo alla maniera dei Romani, ma era anche portare igiene, progresso, civiltà.
Notevoli, per un’amante dell’arte come me, le descrizioni dei palazzi gentilizi (di cui Tropea è ricchissima!) e delle chiese (su tutte quella della veneratissima
Madonna della Romania) e l’indagine sulla nascita del culto delle tre Madonne in terra calabra: bei momenti che svelano profonde conoscenze dell’eziologia sacra.
Come non poteva trattenere la mia attenzione la descrizione “fotografica” della bellissima Villa Adua alle pagg. 229-230 che non riporto in questa recensione per questione di “contenimento” e che mi rievoca le tantissime residenze sparse tra campagna e mare che costellano la nostra meravigliosa costa. Eredi delle antiche villae romane che facevano da presidio di latifondi immensi, conservano il fascino di una ricerca estetica rimasta invitta. Per una classicista come me, è un pregio trovare simili excursus in un romanzo. In particolare Villa Adua mi ha ricordato, in miniatura, la residenza dell’imperatore Adriano a Tivoli, con i giochi d’acqua, la frescura, le statue… l’otium rustico si allietava di simili scorci. Così com’è perfetto, a mio dire, la descrizione del palazzo cittadino della duchessa alla pag. 163: sono due gemme che impreziosiscono l’opera, ripeto.
Ho gradito molto certe caratteristiche dei dialoghi, molto realistici anche se questi personaggi non parlano molto, com’è naturale agiscono, faticano… non ci può essere in loro quella “mistica della parola” che si potrebbe trovare in altri contesti.
Assume realisticità ovviamente il registro stilistico quando si compiace dei dialettismi e delle “voces rarae” (i greci dicevano hapax legomena): per me, cultrice della tradizioni popolari ed amante del nostro dialetto così “dotto”, il romanzo è diventato una sorta di lessico per la ricerca di lemmi altresì perduti che non si usano più e che risalgono alla vita dei contadini… non è forse questo un momento di indagine antropologica? Usi, costumi desueti, proverbi e detti popolari… il tutto legato al ritmo della stagione ed al lavoro nei campi, alla concretezza di una vita semplice e sofferta… il vocabolo ripreso nella sua interezza e, quindi, efficacia d’uso… termini concreti, mai astratti che svelano il “piccolo mondo” degli umili di cui l’opera di De Luca diventa un vero e proprio “Manifesto verista”. Un suggestivo ed umbratile angolo della Calabria declinato nelle sue tante voci. Al centro, una figuretta esile e coraggiosa: Filomena.
Prof.ssa M.Concetta Preta
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Una vera storia di vita vissuta….
complimenti ~
Maria Vittoria