“La terra di Filomena” a Marcellinara
Nella sala rossa della Casa della Cultura “Giovanni Paolo II” di Marcellinara (CZ), vivacizzata dai colori caldi e mediterranei della pittrice Silvana Dell’Ordine che ha esposto alcuni suoi dipinti, è stato presentato il libro “La terra di Filomena” romanzo di Pasquale De Luca.
Dopo i saluti del vice sindaco, dott. Vittorio Scerbo, che ha introdotto gli ospiti della serata: il relatore, prof. Girolamo Caparra, e l’autore, Pasquale De Luca, si è entrati nel vivo della manifestazione.
Il dott. Vittorio Scerbo, prima di dare la parola al relatore, ci ha tenuto a sottolineare che il libro gli è piaciuto molto sia per i contenuti sia per la tecnica narrativa che è caratterizzata da un “forte realismo meridionale” e ha ringraziato l’autore per avergli regalato piacevoli ore di lettura.
Pasquale De Luca, in risposta, ha evidenziato che il libro “La terra di Filomena”, molto veridico nei fatti narrati, è un romanzo storico-sociale con ambientazione negli anni della Seconda Guerra Mondiale e l’immediato Dopoguerra, che ha una base nella verità storica, nel ricordo, nel racconto, nella memoria. Egli ha dedicato la serata a tutti i bambini vittime delle violenze e della guerra. A tal proposito ha letto una sua poesia dal titolo “Il giorno della memoria”.
Il pubblico ha gradito e applaudito.
Il professore Girolamo Caparra, concordando con il dott. Scerbo, ha relazionato su “La terra di Filomena” immettendosi nell’animo dell’autore e sulle motivazioni che lo hanno spinto a scrivere un romanzo che lui ha definito di “magico realismo”. Nel suo intervento si è soffermato, oltre che sui contenuti del libro, sui molti personaggi, sui protagonisti visti nella loro umanità e vivacità, sugli aspetti storici e sociali, sul lavoro, sulla tragedia della guerra, sulle lotte, sulla speranza, ma soprattutto sull’amore che genera la vita e apre una luce sul domani. Ha sottolineato anche l’agilità del linguaggio, semplice e chiaro, che trascina il lettore in una piacevole lettura dall’inizio alla fine.
Il pubblico, attento e interessato, ha vissuto una serata carica di cultura e di storia con intensità e umana partecipazione; ha apprezzato molto le parole del relatore e ha applaudito a lungo.
Di seguito Relazione del prof. Girolamo Caparra.
Umanità, società, e magico realismo nel romanzo La terra di Filomena
di Pasquale De Luca
Pasquale De Luca è uno scrittore e un poeta di Tropea, mio carissimo amico e collega, che collabora con giornali e riviste nazionali, apprezzato dal pubblico e dalla critica che lo ha definito “il poeta contadino” e “poeta dell’anima e della natura”, innamorato della natura, delle cose semplici e della sua città, del suo passato, delle mura, dei palazzi, dei vicoli, della gente; è uno scrittore-poeta di un passato di povertà e di miseria, di fede con le difficoltà e i disagi di varia natura.
La sua prosa è costruita con un linguaggio agile, semplice e chiaro, segnato da un forte realismo, soprattutto nella descrizione delle parti più tragiche della caduta delle bombe. La narrazione coinvolge il lettore nel ricordo del passato, un passato reale e vero, che bisogna guardare con grande rispetto, perché fondato sui valori essenziali della vita come l’amicizia, la solidarietà e l’onestà.
Il romanzo “La terra di Filomena” si snoda lungo il filo della memoria, del ricordo che racconta fatti e vicende di sofferenza, di dolore, di riscatto e di lavoro di un’intera comunità, di uomini e di donne in carne ed ossa, grandi e piccoli, umili e superbi, forti e deboli, che fanno, nella quotidianità del loro tempo, la storia, la piccola grande storia della città di Tropea. Il romanzo racconta di una famiglia della contrada Carmine costituita da contadini e lavoratori, a cui la sciagura della Seconda Guerra Mondiale tolse la gioia e la speranza del futuro, che si farà strada, poi, a guerra finita, con il lavoro e l’amore di due semplici e poetiche creature, Filomena e Ciccillo, tragicamente perito sulle rotaie del treno, nuovo simbolo di progresso, ma anche di dolore e di separazione.
La storia si apre con un tragico quadro bellico. La scrittura, semplice, incalzante, densa di emozione e di passione, trasporta il lettore nel ritmo delle vicende.
Siamo negli anni Quaranta, precisamente nel ’43, quando, ormai a guerra avanzata, con l’intervento degli Stati Uniti e lo sbarco degli Alleati in Sicilia, il conflitto, voluto dal fascismo, colpisce inesorabilmente le terre del Sud e, precisamente, il 5 agosto, piombarono su Tropea e dintorni tredici bombe.
Il padre di Filomena morì tragicamente, lasciando il campo insanguinato con il corpo mutilato nel giardino degli aranci, la casa scoperchiata e distrutta.
Grande tragedia, profondo dolore “’u tata era mortu” e Filomena restava sola e sconsolata con l’angoscia della Terra di Sopra bagnata di sangue – terra bombardata, terra bruciata con grandi buche nere.
L’armistizio venne annunziato dal suono delle campane del Duomo e nelle chiese si tenne la Cerimonia del Ringraziamento. Ma la guerra continuava nelle altre parti dell’Italia e dell’Europa.
Il 9 settembre del ’43 ci fu una grande processione per le vie di Tropea con le autorità del regime non ancora scomparse, e quelle militari, civili e religiose, alla presenza di un vescovo colto e umanista.
Le bombe avevano colpito la periferia di Tropea, distruggendo la casa di Filomena e sconvolgendo la Terra di Sopra. Tropea, secondo la voce dei fedeli, era stata risparmiata per grazia della Madonna di Romania.
Il pilota americano, che aveva sganciato le bombe, era in cattedrale, ma questa presenza suscitò grande sdegno e indignazione in Filomena sconvolta e turbata da quell’uomo che aveva seminato morte.
Passavano i giorni. Filomena dormiva all’addiaccio, senza casa e senza terra, poi, pian piano inizia da sola l’opera di ricostruzione e di riscatto. Con l’aiuto di una donna povera e generosa “’a Muta ‘a Lena” e di Ciccillo riuscì a crearsi un rifugio alla meglio e a lavorare sodo. Dovette, quindi, affrontare le pretese di don Rubino, un prete usuraio che accumulava denaro e ricattava i debitori. Filomena con grande energia smontò il falso debito di don Rubino e liberò la sua terra dall’ipoteca divenendo rispettata e ammirata nel paese. Ben presto tra Ciccillo e Filomena nacque l’amore, un amore semplice, fatto di pause, di silenzi, ma intenso. È una storia di sentimenti, descritta con commovente calore, con accenti e note di lirismo che toccano in profondità l’animo di chi vive e partecipa alla faticosa vita del giorno dopo giorno. Arrivò il tempo del primo raccolto, dei primi guadagni, del pane caldo, appena uscito dal forno di massara Minicuzza. Filomena andava nei diversi paesi a vendere i prodotti della terra e dovunque incontrava accoglienza, spontaneità e partecipazione. “I poveri”, scrive Pasquale, “sono legati da un vincolo invisibile di solidarietà, di umana vicinanza, di solidale condivisione, i poveri si aiutano tra loro, danno ciò che hanno. Filomena sorrideva e ringraziava tutti”. “Filomena viveva la vita, spinta dalla vita, Filomena viveva sulla terra, era la terra”.
Il treno ha segnato la vita di Filomena, il passaggio ne scandiva lo scorrere del tempo, della giornata. Dopo circa un anno dai bombardamenti passò il primo treno, procedendo lentamente. Filomena corse a vederlo. Il treno passava, la guerra era finita, il treno era la vita. Filomena ricordava il viaggio del Duce nel ’37, i saluti alla stazione, i gagliardetti, e la banda. Nel ’39 passava il treno elettrico e il pericolo di morte era visibile sui pali dei fili della corrente, non si sapeva cosa ancora fosse la morte, la morte era qualcosa di molto lontano. Il treno nel ’40 portava i giovani soldati dal Sud al Nord a “vincere o morire” in Africa, nei Balcani, in Russia o in Albania. I soldati non vinsero e non ritornarono.
Difficile e triste è la vita durante la guerra; la gente non sapeva cosa fare, mancava il lavoro, regnava la fame e si andava in cerca di “erbe e acetella”. In quei giorni si era sparsa la voce in paese: si diceva che alla stazione ci fosse un carico di cibo e farina americana. Una donna, dal viso nobile e delicato, avvolta “in uno scialle rosso e in una sciarpa bianca”, guidava la gente alla stazione, gente uscita dai catoji, ciabattini, falegnami, pescatori. Corse anche Filomena. La donna “con lo scialle rosso e una sciarpa bianca” convinse le forze dell’ordine a lasciar fare e la gente di Tropea, la povera gente, ottenne qualcosa, ma ciò non leniva la miseria che la guerra aveva prodotto. Il sarto rivoltava i vestiti, il falegname aggiustava qualche piccolo mobile, il muratore riparava i muri e qualche tegola, e c’era poi chi campava col contrabbando. Venne poi il giorno delle nozze di Filomena con Ciccillo, che furono celebrate nella piccola chiesa del Carmine, circondata da orti e giardini sempreverdi. La guerra era finita, era il 25 aprile del ’45, le bandiere rosse della Libertà e il tricolore d’Italia sventolavano in tutta la nazione. Ritornava la voglia di vivere; l’Italia si organizzava, si ricostituivano i partiti politici, la gente riscopriva i colori della Libertà, si sentivano le canzoni delle lotte, c’era la voglia di vivere e di far festa.
La festa di Filomena e di Ciccillo fu povera, ma allegra e gioiosa, semplice e viva. Tutti parteciparono al matrimonio, la casa di Filomena era piena di popolo.
Pasquale descrive nel romanzo la rinascita di questo popolo dopo la guerra e si serve di un’immagine significativa ed espressiva, cioè paragona il popolo ad un uomo non ancora guarito, debole che si alza dal letto e va avanti lentamente, ma fermo e deciso. Questa era l’Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale. Si continuava a soffrire e a morire per la fame e le malattie. Le case erano cadute, senza uomini, senza donne, senza vita, ma la vita ritornava con le lotte e la speranza. Filomena non si dà per vinta e ricostruisce la sua casa con l’aiuto di alcuni artigiani, compra poi con la vendita delle patate un porcellino che perde ma ritrova ed è contenta e piena di tanta felicità, di quella felicità delle cose semplici che riscaldano la vita. Nel ’45 si combatteva ancora nell’Italia del Nord. A Tropea la guerra era passata o sembrava finita e si cominciava a vivere. Ritornavano i soldati in fuga dai reparti, senza ordini, senza armi, laceri e stanchi. Li chiamavano disertori. La gente, la povera gente, le madri, le mogli, le sorelle, le fidanzate non capivano la parola disertore. Erano contente di avere gli uomini a casa. Ritornavano dalla tragedia del conflitto; molti non fecero più ritorno, rimasero al fronte nei cimiteri di guerra, senza una lacrima, senza un fiore, nei campi di sterminio o nelle camere a gas. Filomena lavorava la Terra di Sopra, zappava, piantava, estirpava le erbe cattive e ascoltava i racconti sulla guerra da zio Angelo che aveva perso una gamba in terra straniera. Era rientrato dalla guerra anche don Carmine, il sacerdote soldato, che narrava i dolori e le sofferenze materiali e spirituali dei combattenti, la crudeltà delle battaglie, parlava della guerra ma educava alla pace, il popolo lo ascoltava e lo amava. Comparve nel paese “la donna con lo scialle rosso e la sciarpa bianca”, girava per le vie del paese, tra i vicoli stretti, nelle piazze, salutava, ascoltava, parlava, osservava, capiva gli umori degli ultimi, visitava i tuguri senza acqua e senza fuoco e aprì le porte del suo palazzo a tanta miseria; fu un sollievo per la povera gente, la quale trovò, in seguito, nella duchessa un punto di riferimento fondamentale nel voto sul Referendum tra Repubblica e Monarchia. La nobildonna era repubblicana; in Italia vinse la Repubblica, non a Tropea. Alle prime elezioni amministrative, però, la duchessa, riportò un grande successo elettorale: diventò sindaco del Comune. Una grande novità, una donna illuminata e progressista guidava una città per volontà popolare. Tropea si apriva, così, ad una nuova esperienza politica che di lì a poco tutta l’Italia avrebbe vissuto. Le scuole da private divennero pubbliche e l’istruzione si diffuse fra i ceti popolari. Filomena viene coinvolta in questi fatti storici e con l’istinto di popolana e la saggezza contadina sa scegliere, e sceglie un futuro di liberazione. Pasquale, nel delineare la figura della nobildonna ha in essa proiettato la speranza di un popolo che aspira alla giustizia e alla libertà. E l’Italia intera, allora, come oggi, ha bisogno di libertà e di giustizia, di pace e di lavoro per le future generazioni. Ma la storia di Filomena non finisce qui. La sua è la storia del mondo, la storia dell’uomo che costruisce, che lavora e fatica, storia di sudore, di pianto e di sangue, storia d’amore. La guerra e la sofferenza l’avevano formata, temprata a difendere la sua terra, a difendere la sua acqua per irrigare il suo orto, a difendere la sua mucca Brunina che un malfattore le aveva rubato. Filomena lottava, soffriva, sperava, tenace e forte, nell’affermare i suoi diritti, la sua dignità di donna, di moglie e di madre. La duchessa, Filomena, ‘a Muta ’a Lena sono la storia di un’umanità protesa al riscatto. Intorno a questi personaggi ruota la società di Tropea, nobili, borghesi, artigiani, clero, preti, monaci, contadini e figure tipiche folcloristiche di un mondo che passa da una società chiusa conservatrice ad una società aperta, ad un futuro di speranze e di mutamenti. La penna di Pasquale, di un poeta e di uno scrittore attento, è riuscita bene a descrivere tutto questo mondo variegato e ricco, poliedrico, di umori e vicende umane che costituiscono la vita nel suo fluire. Filomena ha dato al suo compagno una figlia, Lucia, che cresce con tanto amore. Ma un tragico destino toglie a Filomena il suo amato Ciccillo che verrà travolto dal treno mentre si reca alla stazione per andare al lavoro. Ma Filomena continua a coltivare la terra, ricorda l’amore per Ciccillo e per la figlia Lucia. Ma un’altra vita, aggiunge Pasquale, cresceva dentro di lei, “un figlio concepito come un sogno nella notte della lucciola che solitaria spegneva la sua luce su una foglia di grano”. Il bambino nacque bello “come il sole, aveva negli occhi una luce di stella, nacque, quando l’aurora si tingeva di luce e il mare di colore azzurro, nacque per amore, Luca fu il suo nome, perché venne insieme alla luce”. Era la luce, era la speranza dell’uomo che verrà.
La scrittura di Pasquale è fluida, semplice e asciutta ed è pervasa da una dolce musicalità in cui i fatti e le vicende sono rappresentati con un tocco di magico realismo poetico attraverso la memoria che racconta uomini e cose. Interessanti sono poi i termini, i detti, le locuzioni, i modi di dire in dialetto veicolo e anima della vita semplice e contadina in cui la parola diventa carne e sangue del rapporto faticoso dell’uomo con la natura. Pasquale con questo romanzo consegna a tutti noi un pezzo di quella piccola storia di un paese che diventa macrostoria nell’insieme dei fatti umani. Insomma il libro è un inno alla vita, all’uomo che verrà che nasce dal sacrificio di chi non c’è più, ma ha seminato la Liberà, il riscatto e la dignità di ognuno di noi.
Marcellinara, Casa della Cultura, sabato 26 gennaio 2013
Girolamo Caparra
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